Filippo Albertin

发布于 2024-04-16到 Mirror 阅读

Il Mito dell’Attore Eterno

Ovvero il deep fake come cifra ormai appurata del mondo che verrà, tra arte, intrattenimento e intelligenza artificiale…

Avete presente la serie cult Stranger Things? Senza alcun dubbio si tratta di uno dei più grandi successi degli ultimi anni, nonché del titolo che ha spinto molti come me a sottoscrivere per la prima volta l’abbonamento a un servizio di streaming; in questo caso, il colosso Netflix, che assieme a pochi altri suoi competitori rappresenta come credo ormai ovvio il futuro, per non dire il presente, di ogni forma di intrattenimento cinematografico o simil-televisivo della modernità.

Di che parla la storia? La risposta è semplice: si tratta di una narrazione appunto seriale che racconta le gesta di vari personaggi, con specifico riferimento a un gruppo di ragazzini — presumibilmente tra i 12 e i 13 anni — che nella metà degli anni Ottanta si trovano a fronteggiare i prodigi soprannaturali e multidimensionali prodotti da un esperimento governativo gestito da individui senza scrupoli.

La serie è stata prodotta dai fratelli Duffer, nati entrambi nel 1984. Le quattro stagioni ad oggi andate in onda coprono un periodo di produzione dal 2016 al 2022, ossia sei anni.

Facciamo un passo indietro e poniamoci una domanda. Cosa costituisce la ragione del successo di una narrazione seriale televisiva? La storia e solo la storia? Sì, certo, è evidente che lo spessore, l’arguzia e il ritmo di una sceneggatura costituisce l’ossatura portante di un racconto di successo. Ma diciamocelo chiaramente: il successo seriale di una narrazione altrettanto seriale è costituito dal morboso affetto che si crea con i singoli personaggi, che di fronte al telespettatore sono degli attori in carne ed ossa (nel caso di prodotti esportati, attori con una voce fornita da specifici doppiatori, il cui cambio risulta sempre, fateci caso, un trauma bello e buono).

Ora, un generico “fratello Duffer”, nato, come detto, nel 1984, nell’anno 2016 ha 32 anni. La principale attrice della serie, Millie Bobby Brown, che interpreta la misteriosa bambina “11”, ossia la figura di punta dell’intera storia, risulta nata nel 2004. Conformemente a quanto detto circa la trama, nel 2016 ha appunto 12 anni: una ragazzina.

Ora, supponiamo che il sopraccitato fratello Duffer, che nel 2016 ha 32 anni, decida che il format Stranger Things merita di essere visto, apprezzato e indirettamente acquistato da persone della sua età, o anche ovviamente più giovani, per una carriera di produttore incallito che nel suo caso arrivi a impegnarlo per 50 anni, ossia fino agli 82, prima di ritirarsi definitivamente e godersi i miliardi generati dal successo potenzialmente infinito della serie.

A questo punto bisogna fare alcuni calcoli ulteriori…

Ragionevolmente, quante serie si possono produrre in un anno di attività? Nel caso di quella in oggetto, abbiamo visto che ci sono voluti sei anni per produrne quattro. Ma facciamo finta che attraverso un superlavoro si arrivi pure a produrne una ogni anno.

Adesso facciamo un passo indietro e analizziamo la morfologia di una narrazione. La storia della prima stagione di Stranger Things, ovvero di una generica narrazione a puntate, che arco di tempo ricopre? Facciamo una settimana? Ebbene, considerando che in un anno ci sono circa cinquanta settimane, il calcolo è presto fatto: cinquant’anni di produzione sono quelli necessari per produrre narrazioni seriali in cui i personaggi invecchiano di appena un anno! Ossia, a voler narrare esattamente le storie successive della generica banda di ragazzini, lungo un anno della loro adolescenziale esistenza, servono cinquant’anni di riprese.

Ma il problema non è neppure questo. Il problema vero è che Millie Bobby Brown, dopo 50 anni, non è più una ragazzina di 12 anni, ma una matura signora di 62 anni; ovvero, un’attrice logicamente impossibilitata a recitare la parte del personaggio che però noi vogliamo a tutti i costi interpretato da lei.

Molti di voi avranno già capito dove voglio arrivare. Ma prima di arrivarci voglio citare un film del 2013, che a ben vedere è passato piuttosto inosservato, forse proprio per la sua lacerante portata profetica. Il film è The Congress, molto liberamente tratto dal ben più antico romanzo Il Congresso di Futurologia, di Stanislaw Lem. Le tematiche trattate in questa pellicola quasi avanguardistica, a metà tra il film dal vero e quello d’animazione, sono in verità molte, e in larga misura esulano dall’originale romanzesco. Tra le varie cose che accadono nel film, però, ce n’è una molto significativa: la protagonista, un’attrice di successo, per ragioni di denaro vende la sua immagine a una grande casa di produzione cinematografica, che ne effettua una scansione totale, il tutto sotto la promessa sancita da contratto di non tornare mai più a recitare dal vivo.

Ebbene, siamo arrivati al punto. Un punto che dovrebbe far capire molto bene il grande interesse da un lato, e il rapidissimo sviluppo dall’altro, delle tecnologie basate ormai non solo sulla scansione e riproduzione di volti reali, ma addirittura sulla generazione di volti completamente artefatti, creati ex novo dall’intelligenza artificiale.

Questa tematica colpisce chiaramente, in primissima battuta, il mondo attoriale, che guarda caso ha recentemente animato forse uno dei primi, o comunque il più grande sciopero della storia di Hollywood, con proteste chiaramente dirette non solo al versante salariale, ma anche esplicitamente all’intelligenza artificiale che — diciamocelo senza tanti mezzi termini — giorno dopo giorno raggiunge livelli di perfezione talmente impensabili da minacciare chiaramente il concetto stesso di recitazione e di attorialità cinematografica.

Il caso della “Millie Bobby Brown eternamente ragazzina”, in grado di interpretare, assieme ai suoi compagni virtuali, tutte le serie di Stranger Things che desideriamo, è quindi una fattispecie tutt’altro che teorica. Da un punto di vista strettamente economico siamo all’alba di una rivoluzione che potrebbe cancellare per sempre la plausibilità di lavori come appunto quello dell’attore, ma anche del testimonial, del presentatore, del ballerino, e la lista potrebbe continuare.

Nell’arco di un solo anno la resa del morphing mediato dall’intelligenza artificiale e del cosiddetto deep fake ha permesso di passare da un astratto, caricaturale e gommoso Will Smith a figure che addirittura pongono la questione su un piano ancora più inquietante: non solo risultano perfette, ma rischiano addirittura di essere giudicate migliori dell’essere umano, al limite laddove anche riconosciute come artificiali!

Evitiamo da subito astratte illusioni, che vorrebbero la presenza di fantomatiche commissioni etiche, regole, limitazioni e altri lacci a quella che sarà evidentemente la nuova frontiera dell’intrattenimento, per non parlare di molto altro. La posta in gioco è di proporzioni incommensurabili: attori che non si stancano mai, che non protestano, che possono essere ingaggiati a costi infinitamente inferiori rispetto alle cifre che solitamente denotano il cinema e la televisione. Ma che dire della musica? Siamo veramente certi che le esibizioni dal vivo (ammesso e non concesso che non si riesca ad avere perfette riproduzioni tridimensionali di affascinanti cantanti dall’ugola d’oro, cosa tutt’altro che facilmente sostenibile) siano così blindate a livello di fungibilità?

Suvvia. I nostri adolescenti passano praticamente l’ottanta percento della loro esistenza davanti a Instagram, TikTok e Facebook. Gli influencer artificiali ormai rastrellano migliaia di follower arrapati. Giochi sessuali ipertecnologici e bambole gonfiabili di ultima generazione sono ormai lo standard per il generico leoncino da tastiera frustrato. Il territorio globale è ormai assolutamente fertile, tanto che non servirebbe neppure sbilanciarsi in chissà che sarcasmo o nichilismo.

Le vere questioni sono ormai altre, e non riguardano tanto una rosa di settori ormai definitivamente compromessi e per i quali è solo questione di tempo e ricambio generazionale. Le prossime fattispecie riguarderanno molto altro ancora. Vediamo di fare qualche esempio:

  • Editoria — Avrà ancora senso un autore in grado di scrivere, in uno o due anni, un libro che verrà letto al più in una settimana? La stessa cosa dicasi per il giornalismo. Già oggi è chiaro che numerosissimi contenuti sono AI-generated. Fanno schifo, certo. Ma tutti sappiamo a che serve un articolo, ormai: non a generare piacere, informazione o soddisfazione, ma a generare traffico pubblicitario.

  • Artigianato artistico — Ormai un qualsiasi programma di modellazione 3D associato a una comune stampante altrettanto tridimensionale può produrre in serie oggetti generati da un prompt o simili istruzioni. Avranno ancora senso gli artisti plastici, per non parlare di quelli grafici?

  • In generale — Avrà più senso avere un oggetto unico, oppure un oggetto rapidamente creato e altrettanto rapidamente consumato, gettato, distrutto? Lo stesso oggetto unico sarà valutato sulla base del suo contenuto estetico, oppure sul contenuto intrinsecamente connesso al suo prezzo, dettato magari dalla speculazione gestita da colossi del marketing multimediale?

Tante sono le domande, ma una sola la risposta: Qualsiasi possa essere il futuro, dobbiamo iniziare da subito a cavalcarlo, anticipandolo e comprendendo le sue tendenze prima che ci travolga.